Montagna interiore. Seconda parte.

Tofana de Rozes, metri 3.225. Previsioni del tempo eccellenti. Ricordo quella giornata, anni fa. Siamo in tre. Si comincia a salire per sentiero, su fino a quota 2.400 circa, dove inizia la via. Le mani sulla roccia, appiglio dopo appiglio, spingendo di gambe, lavorando di braccia. Mano che abbranca, altra mano che abbranca, piede, piede. Poi, ancora, mano, mano; piede, piede. Si sale, si sale. Appigli molto comodi, basta sapere andare, nessuna difficoltà particolare. Lunga, esposta. Sotto, la valle, è ormai 500 metri più in basso. Non è il caso di lasciare gli appigli. Si esce oltre quota 3.000 metri. Gli ultimi duecento metri di dislivello si salgono camminando curvi su per le rocce della cresta, facendo attenzione a dove si mettono i piedi, a non smuovere sassi, che in montagna rappresentano un bel pericolo.

La cima. Una ascensione di circa cinque ore. E’ passato mezzogiorno, non c’è l’ombra di una nube. Siamo rimasti a contemplare il mondo per quasi due ore, un sole che accecava, prima di iniziare a scendere per la via normale.

Ampezzo è duemila metri più in basso, nitida, potresti vedere la gente seduta nei caffè.

Ai tavolini, gomito a gomito, persone molto diverse, diverse dentro. Alcune che ieri sedevano al caffè, oggi sono in cima con noi. Hanno le braccia, hanno le gambe, hanno il cuore per salire abbrancati alla nuda roccia. Hanno la capacità, forse, di vedere le montagne, di sentirle in maniera autentica, con tutto il loro pericolo, tutta la loro rudezza, tutto il loro fascino.

Altre persone non saliranno mai su questa vetta, almeno non con le loro gambe, e dunque non sapranno mai cosa è questa montagna. Le loro pupille staranno magari fissate sulla cima, con un binocolo scruteranno le balze e la vetta, e noi attraverso il vetro saremo ancora figure umane che si ergono in piedi. Il loro occhio sarà sazio, forse, ma nessuna esperienza reale, effettiva, della Tofana de Rozes sarà mai patrimonio della loro mente.

Queste persone, forse, credono che le montagne siano “panorami”, e che sia sufficiente poter dire “ci sono stato”, e magari mostrare il “selfie” in buona compagnia, e pubblicarlo sui social. Forse pensano di sapere qualcosa delle montagne perché hanno pagato il biglietto della funivia che mena alla Tofana di Mezzo, e il loro grasso corporeo è stato trasportato a 3.000 metri di quota, o perché i loro arti hanno premuto l’acceleratore del loro motore, e le loro ossa hanno rombato fino alla porta del “Rifugio”. Ma l’uomo, ma la donna, non sono solo grasso e calcio, selfie e social.

Se sono qualcosa, sono mente, cuore e coraggio.

La Tofana de Rozes, metri 3.225 sul livello del mare, può essere salita da un escursionista capace, da un escursionista esperto e allenato, utilizzando la via normale sia per salire che per scendere. E’ un sentiero alpinistico (difficoltà EE), ma non presenta passaggi di arrampicata tali da richiedere corde e altre attrezzature, ma sono necessari assenza di vertigini e piede fermo. Sono naturalmente necessarie le attrezzature indispensabili per le escursioni ad alta quota. Nodo essenziale: le previsioni meteorologiche. In caso di perturbazioni, a quelle quote, ad agosto, nevica.

Si può raggiungere con un impatto ambientale minimo, senza muovere fumiganti autovetture o Suv, utilizzando la linea estiva di autobus che salgono da Cortina verso Passo Falzarego, e scendendo alla fermata a quota 1.700. Ci si può fermare per la notte presso il Rifugio Giussani, metri 2.580, e attaccare la via per la vetta il giorno dopo, di buon mattino.

Basta volerlo, si può fare. E ciascuno può scegliere una montagna alla propria portata, perché quello che conta è la autenticità della esperienza.

Chi è umano, veramente umano, sa che le cose importanti della vita, la capacità di vedere le montagne, non si possono comprare.

Chi è umano, veramente umano, sa che le cose importanti della vita, la capacità di vedere le montagne, si possono solo conquistare con la propria intelligenza, con lo studio, con il coraggio, con i piedi, con le mani.

Riproduzione riservata.

Foto: La via di salita. Particolare da una foto tratta dal sito ritornoao.wordpress.com/2018/08/12, distribuita con licenza CC-BY (Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale).

La gamba ed il pedale

La stazione ferroviaria di Calalzo si trova a 741 metri sul livello del mare. E’ una stazione di testa, dove ha termine una linea di montagna che sale da Vittorio Veneto e offre panorami su valli e boschi di conifere. Un buon numero di anni or sono, trovato un socio disposto a pedalare in salita, ci siamo lanciati ad esplorare il tracciato della dismessa linea ferroviaria Calalzo-Cortina-Dobbiaco. Avevo una mountain bike nuova di zecca, e l’ho caricata sul treno fino a Calalzo.

La ciclabile come la conosciamo oggi era ancora allo stato di progetto, e dunque il tracciato non era ufficialmente aperto al pubblico. Tra Valle di Cadore e San Vito si trattava di passare per gallerie senza illuminazione, di pedalare a volte su una massicciata con pietrisco grosso, di zigzagare tra arbusti e massi franati. Ad un certo punto il sedime era stato completamente invaso dai rovi e passare era letteralmente impossibile, così, per non tornare indietro, abbiamo dovuto calare le biciclette giù per la scarpata fino alla sede della strada statale, che correva alcuni metri più in basso.

Cortina d’Ampezzo, finalmente, ma il nostro obbiettivo era ben più ambizioso. Avevo montato una bagagliera a sbalzo, imbullonata direttamente sul tubo reggisella, e sopra era fissato saldamente uno zaino da montagna che pesava, almeno, 9 chili. Giacca a vento, vestiti di ricambio, scarponi, cibo, il necessario per passare una notte in rifugio. Così dopo Cortina, metri 1211, è iniziata la salita tosta entro il Parco naturale delle Dolomiti d’Ampezzo, su su fino al Rifugio Ra Stua e poi oltre, sudando come dannati, spremendo le energie fino al midollo, incontrando tratti con ghiaia grossa, fino alla Utia de Senes, il Rifugio Sennes, a quota 2116 metri sul livello del mare. Un dislivello di 1375 metri, tutti in salita.

Al Rifugio ci aspettavano altri soci della compagnia, e così, il giorno dopo, lasciata la MTB in rifugio e calzati gli scarponi, siamo saliti tutti per la via normale fino alla cima del Seekofel/Croda del Beco a 2.810 metri di quota.

Poi di nuovo giù al rifugio, caricata di nuovo la bicicletta, su in sella, e giù a rotolare rifacendo la strada del giorno prima: questa volta, finalmente, in discesa, a riprendere il treno per Venezia.

A distanza di anni posso ancora ricordare con piacere quella impresa, e la posso raccontare con soddisfazione, perché è stata progettata in piena autonomia e con il gusto della esplorazione di un tracciato che ancora non era stato sistemato e aperto. Una impresa di cui ancora ricordo la fatica, la sofferenza, la durezza della salita, tutta affrontata facendo appello esclusivamente alle personali energie, spingendo sui pedali di una MTB che pesava, a vuoto, circa 13 chili, e portava un bagaglio di 9.

In questi anni sono arrivate le E-Bike. Di fuori sembrano MTB come le altre, in alluminio, con corone e pignoni e pedali, ma si riconoscono per la notevole sezione dei tubi del telaio, che nascondono un consistente pacco di batterie e un potente motore elettrico. Bisogna comunque pedalare – mi dice un sostenitore delle mountain bike a trazione elettrica – e si deve risparmiare la carica delle batterie, che si spende quando necessita, quando la salita si fa lunga e ripida. Così – continua il ciclista a motore elettrico – anche un uomo maturo che potrebbe coprire al massimo 1.000 metri di dislivello, può oggi arrivare a toccare i 2.000 metri di dislivello, e coprire così distanze che eccedono sensibilmente la semplice portata delle sue energie personali.

A questo punto, però, sorge una domanda: che significa fare una esperienza autentica?

E’ chiaro che se stiamo parlando di un semplice mezzo di trasporto, un mezzo che semplicemente permette spostamenti nella vita di tutti i giorni, allora sicuramente la bicicletta elettrica rappresenta un mezzo che consente anche a persone di ottanta anni di spostarsi agevolmente in città, e di affrontare salite, e di muoversi liberamente a basso costo, e senza produrre rilevanti danni ambientali. Ma parliamo di persone di 80 anni suonati. Vedere uomini e donne appena maturi, oppure decisamente giovani, sfrecciare sulle strade facendo solo finta di pedalare – giusto perché altrimenti il motore elettrico non si attiva – lascia, come dire, piuttosto perplessi. Se specifiche necessità non impongono scelte obbligate – cioè malattie o peculiari condizioni – è chiaro che un sano esercizio fisico, una vera, autentica, paziente e robusta pedalata, giova immensamente a uomini e donne di tutte le età, ottantenni compresi.

Se poi parliamo di esperienze di tipo ludico o alpinistico-escursionistiche, oppure con una valenza “sportiva”, pare che il discorso si debba avviare su altri binari. In questo caso, quello che conta, quello che costituisce il nocciolo essenziale, quello che caratterizza da un punto di vista umano una esperienza autentica, è il poter dire con verità “l’ho fatto con le mie sole forze”, cioè, veramente, “l’ho fatto io”.

Il senso della esperienza che ho narrato all’inizio è tutto qui.

Se un uomo può superare solo 1.000 metri di dislivello, ebbene, accetti il suo limite, e copra solo 1.000 metri di dislivello, ma saranno veramente e autenticamente suoi, tutti, nessun metro escluso. Un uomo che con la bicicletta elettrificata riesca a superare 2.000 metri di dislivello non potrà andare a raccontarlo, perché non sarà in grado di distinguere quali metri li ha pedalati lui, faticando, e quali invece li ha percorsi il suo motore elettrico. Al più potrà fornire indicazioni sulla marca e la bontà delle batterie che ha comperato. Il valore della sua esperienza, dal punto di vista umano, è zero. Tanto varrebbe, a questo punto, dotarsi di un puro e semplice ciclomotore elettrico, banale, semplice, ma almeno onesto, pienamente onesto nel dichiarare la sua trazione a motore.

Per un uomo e per una donna è fondamentale non abdicare mai al proprio pieno ed essenziale potere umano fisico, al potere delle proprie gambe, al potere delle proprie braccia, al potere del proprio fiato naturale. E’ questione di consapevolezza piena, è questione di piena accettazione di sé e dei propri limiti fisici naturali.

E’ questione di etica.

P.S. Nella foto una veduta del Lägh da Cavloc, metri 1907. Questa estate padri quarantenni con figli dodicenni tutti a cavallo di mountain bike elettriche. Ma il passo del Maloja, dove transitano gli autopostali che salgono da Chiavenna e consentono il trasporto delle MTB, si trova meno di 150 metri più in basso, raggiungibile a piedi in meno di un’ora per strada forestale e con rampe pavimentate in cemento. Una passeggiata alla portata di un bambino sano.