Un sentiero per passi nuovi – seconda parte

“Cosa possiamo fare noi” è la domanda centrale posta a chiusura di questa seconda puntata. Offro alcune prime risposte ed esperienze personali in questo terzo video, dopo aver analizzato la situazione europea come emerge da una recente ricerca scientifica.

Per avviare il filmato basta cliccare sul link qui sotto, e si possono inserire i commenti tornando su questa pagina e cliccando il fumetto.

Video 3: https://vimeo.com/506533368

 

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Lugano, Porza, la ruota libera

Domenica. Pomeriggio. Un ragazzo con il casco, e un uomo, pedalano salendo da Lugano, 273 metri sul livello del mare. Porza è più in alto, a 483 metri, e forse i due stanno ingaggiando una piccola gara a chi arriva prima.

In primo piano, parcheggiata, la mia gloriosa mountainbike e, accanto, e poco oltre, paracarri sono posti a restringere la carreggiata della strada in pendenza. E’ un giorno di vacanza, e con la bici si può correre spensierati a caccia di stradine secondarie, di boschetti ombrosi, di vigneti a pochi passi dalla città, di panorami aperti sulle colline, sui monti, sul lago. In salita si deve pestare sui pedali, e lavorare con i cambi, e si smaltiscono le calorie, e i muscoli diventano sodi. In discesa si corre a gara con il vento, e l’aria fischia e accarezza il viso, e bisogna dare di freno, e si vola a ruota libera.

Arriva novembre, ma le temperature sono ancora piuttosto miti, e il sole in questi giorni si è fatto vedere radioso, e le foglie degli aceri sono ancora ben salde al loro lavoro, verdi. La bicicletta anche a novembre è fedele compagna degli spostamenti cittadini, e lo sarà anche a dicembre, a gennaio, e a febbraio. Basta vestirsi. Giacca di peso adeguato alla temperatura esterna e, secondo il caso, sciarpa anti spifferi, guanti, mantella poncho para pioggia. E casco, come sempre, naturalmente.

Nei paesi di campagna, nelle piccole città della pianura veneta, come nelle metropoli, la bicicletta consente di coprire 5 chilometri, tranquillamente, in circa 15 minuti. Nessun problema di parcheggio: si arriva proprio di fronte al negozio, si scende, si lega bene ad un palo o ad un portabiciclette con una bella catena, si compera, e poi via, come il fulmine. Pane, marmellata, caffè, spaghetti, mele e pere? Nello zaino, in spalla, oppure in una borsa ben fissata al portabagagli posteriore.

Costi per il carburante? Zero. Anzi, ci guadagni in tonicità muscolare. Tasse e bolli vari? Zero. Costi di manutenzione? Pochi spiccioli. Costi per il parcheggio a pagamento in pieno centro? Zero. Code, ingorghi, manovre per entrare nel buco libero, baruffe con quello del Suv che ti vuole soffiare il posto, paraurti azzoppati da incontri troppo ravvicinati? Zero.

La bicicletta ci rende liberi. Liberi anche il lunedì, il martedì, il mercoledì, il giovedì, il venerdì, e il sabato.

 

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Il presente, il futuro

Domande e risposte su presente e futuro, su normalità e felicità. Perché il 2020 non è un anno normale.

E’ un video.

Per vederlo, basta cliccare sul link.

I commenti possono essere inseriti su questa pagina, cliccando il fumetto o la scritta in basso.

https://vimeo.com/422404421

 

La felicità come forza e levità

Il colore, la materialità scultorea della pianta, la presenza di un essere tra i più incantevoli. Posato con levità a succhiare il nettare della vita, in perfetta armonia con il suo ambiente, pennellata di una magica tavolozza. Tinta su tinta, tono su tono, sfumatura su sfumatura.

La felicità è lieve.

E’ uno stato di soddisfazione connesso alla propria situazione nel mondo. Pare – a guardare la fotografia – che questa farfalla possa dirsi soddisfatta della propria situazione nel mondo. La felicità è uno stato, e dunque relativamente stabile, e riesce a trovare il sentiero per affermarsi e mantenersi, pur in mezzo alle incertezze e alle angustie di una vita. E dunque è lieve, facile, leggera da portare.

Una conquista, comunque, non un regalo, come sempre quando si parla di cose importanti. Richiede un profondo e autentico lavoro interiore, in primo luogo, e una ricerca costante e paziente.

E’ una costruzione, l’edificazione della propria interiorità, della propria personalità, inserita e in armonia con il mondo, capace come una farfalla di riconoscere le semplici cose buone, la linfa da cui trarre alimento ed energia. E’ anche lotta, se necessario, perché capace di dire no – un no chiaro e deciso: alle lusinghe senza sostanza, alla immondizia ben confezionata che viene quotidianamente pubblicizzata e spacciata, e lodata dagli spot e dalle chiacchiere.

Perché sa dire si – un forte e limpido si – alle esperienze e alle cose che contano davvero, che sono salutari e autentiche.

Per questo occorre conquistare una chiara visione del mondo, e imparare a distinguere ciò che è essenziale e utile alla vita, pulsante e biologica, e ciò che è merce volgare, proposta per mungere le migliori energie del singolo, e spennare l’incauto e l’illuso di turno. Ci vuole dunque cervello e studio, per evitare la trappola.

La felicità è forte, proprio come una farfalla, perché è forza genuina, personale, fisica e mentale, di idee e muscoli. Le farfalle, alcune almeno, esprimono una forza veramente notevole, a dispetto dell’immagine comune di animaletto delicato e fragile.

La Vanessa cardui, conosciuta nelle isole britanniche come Painted Lady, ha una apertura alare di circa 5 centimetri, pesa pochi grammi, e quando le ombre dell’autunno si fanno prossime, spicca il volo e lascia le rive del Tamigi. Vola per centinaia e centinaia di chilometri, tappa dopo tappa, in un viaggio migratorio verso il soleggiato Sud, verso le calde regioni dell’Africa.

Questo è un esempio di genuina forza. La forza è leggera, non pesante.

Occorre un vero cambio di prospettiva, e spalancare gli occhi e le fibre della mente. Una rivoluzione di pensiero e di azione, è necessaria, che oltrepassi i luoghi comuni sedimentati nei secoli passati, e archivi definitivamente il Novecento come uno dei secoli più tragici della storia umana. La forza, la potenza, non è nella bomba di Hiroshima, e neppure nella centrale di Fukushima, schiantata da una esplosione, e neppure nell’esplosione quotidiana delle benzine e dei gasoli, dei fumi tossici dei Suv, dei Crossover, delle supercar e delle utilitarie.

La forza autentica è nelle ali di una farfalla. La forza autentica è nei piedi. Per scoprirlo basta camminare e pestare il suolo domestico, per capirlo basta pigiare sui pedali della propria bicicletta.

La felicità è forza e levità, e per spiccare il volo e sollevarsi dai lacci e dalle pastoie, conviene alleggerire il bagaglio, e liberarsi dei pesi e dei fardelli superflui. Conviene fuggire dalle trappole quotidiane, della routine del lavoro fatto solo per il denaro, del consumo forzato e del divertimento coatto. Conviene liberarsi dalla mania gravosa di comprare aggeggi, vestiti e cosette varie, e anzi iniziare a vendere – o magari regalare – quelle cose ancora utili abbandonate nei cassetti, negli armadi, nei magazzini e nelle soffitte.

Ogni settimana, ogni giorno possiamo liberarci di un peso, di un ingombro, di un impaccio, di una abitudine idiota: una azione di liberazione concreta, per la propria vita, per il proprio benessere, per trovare ancora forza e levità.

Liberarsi della zavorra per volare leggeri – per volare adesso.

 

* La foto è stata scattata sulle Alpi, a oltre 1800 metri di quota, e non conosco la specie di appartenenza della farfalla. Per la Vanessa cardui: “Round-trip across the Sahara: Afrotropical Painted Lady butterflies recolonize the Mediterranean in early spring.” Reperibile on line: https://royalsocietypublishing.org/doi/10.1098/rsbl.2018.0274

La gamba ed il pedale

La stazione ferroviaria di Calalzo si trova a 741 metri sul livello del mare. E’ una stazione di testa, dove ha termine una linea di montagna che sale da Vittorio Veneto e offre panorami su valli e boschi di conifere. Un buon numero di anni or sono, trovato un socio disposto a pedalare in salita, ci siamo lanciati ad esplorare il tracciato della dismessa linea ferroviaria Calalzo-Cortina-Dobbiaco. Avevo una mountain bike nuova di zecca, e l’ho caricata sul treno fino a Calalzo.

La ciclabile come la conosciamo oggi era ancora allo stato di progetto, e dunque il tracciato non era ufficialmente aperto al pubblico. Tra Valle di Cadore e San Vito si trattava di passare per gallerie senza illuminazione, di pedalare a volte su una massicciata con pietrisco grosso, di zigzagare tra arbusti e massi franati. Ad un certo punto il sedime era stato completamente invaso dai rovi e passare era letteralmente impossibile, così, per non tornare indietro, abbiamo dovuto calare le biciclette giù per la scarpata fino alla sede della strada statale, che correva alcuni metri più in basso.

Cortina d’Ampezzo, finalmente, ma il nostro obbiettivo era ben più ambizioso. Avevo montato una bagagliera a sbalzo, imbullonata direttamente sul tubo reggisella, e sopra era fissato saldamente uno zaino da montagna che pesava, almeno, 9 chili. Giacca a vento, vestiti di ricambio, scarponi, cibo, il necessario per passare una notte in rifugio. Così dopo Cortina, metri 1211, è iniziata la salita tosta entro il Parco naturale delle Dolomiti d’Ampezzo, su su fino al Rifugio Ra Stua e poi oltre, sudando come dannati, spremendo le energie fino al midollo, incontrando tratti con ghiaia grossa, fino alla Utia de Senes, il Rifugio Sennes, a quota 2116 metri sul livello del mare. Un dislivello di 1375 metri, tutti in salita.

Al Rifugio ci aspettavano altri soci della compagnia, e così, il giorno dopo, lasciata la MTB in rifugio e calzati gli scarponi, siamo saliti tutti per la via normale fino alla cima del Seekofel/Croda del Beco a 2.810 metri di quota.

Poi di nuovo giù al rifugio, caricata di nuovo la bicicletta, su in sella, e giù a rotolare rifacendo la strada del giorno prima: questa volta, finalmente, in discesa, a riprendere il treno per Venezia.

A distanza di anni posso ancora ricordare con piacere quella impresa, e la posso raccontare con soddisfazione, perché è stata progettata in piena autonomia e con il gusto della esplorazione di un tracciato che ancora non era stato sistemato e aperto. Una impresa di cui ancora ricordo la fatica, la sofferenza, la durezza della salita, tutta affrontata facendo appello esclusivamente alle personali energie, spingendo sui pedali di una MTB che pesava, a vuoto, circa 13 chili, e portava un bagaglio di 9.

In questi anni sono arrivate le E-Bike. Di fuori sembrano MTB come le altre, in alluminio, con corone e pignoni e pedali, ma si riconoscono per la notevole sezione dei tubi del telaio, che nascondono un consistente pacco di batterie e un potente motore elettrico. Bisogna comunque pedalare – mi dice un sostenitore delle mountain bike a trazione elettrica – e si deve risparmiare la carica delle batterie, che si spende quando necessita, quando la salita si fa lunga e ripida. Così – continua il ciclista a motore elettrico – anche un uomo maturo che potrebbe coprire al massimo 1.000 metri di dislivello, può oggi arrivare a toccare i 2.000 metri di dislivello, e coprire così distanze che eccedono sensibilmente la semplice portata delle sue energie personali.

A questo punto, però, sorge una domanda: che significa fare una esperienza autentica?

E’ chiaro che se stiamo parlando di un semplice mezzo di trasporto, un mezzo che semplicemente permette spostamenti nella vita di tutti i giorni, allora sicuramente la bicicletta elettrica rappresenta un mezzo che consente anche a persone di ottanta anni di spostarsi agevolmente in città, e di affrontare salite, e di muoversi liberamente a basso costo, e senza produrre rilevanti danni ambientali. Ma parliamo di persone di 80 anni suonati. Vedere uomini e donne appena maturi, oppure decisamente giovani, sfrecciare sulle strade facendo solo finta di pedalare – giusto perché altrimenti il motore elettrico non si attiva – lascia, come dire, piuttosto perplessi. Se specifiche necessità non impongono scelte obbligate – cioè malattie o peculiari condizioni – è chiaro che un sano esercizio fisico, una vera, autentica, paziente e robusta pedalata, giova immensamente a uomini e donne di tutte le età, ottantenni compresi.

Se poi parliamo di esperienze di tipo ludico o alpinistico-escursionistiche, oppure con una valenza “sportiva”, pare che il discorso si debba avviare su altri binari. In questo caso, quello che conta, quello che costituisce il nocciolo essenziale, quello che caratterizza da un punto di vista umano una esperienza autentica, è il poter dire con verità “l’ho fatto con le mie sole forze”, cioè, veramente, “l’ho fatto io”.

Il senso della esperienza che ho narrato all’inizio è tutto qui.

Se un uomo può superare solo 1.000 metri di dislivello, ebbene, accetti il suo limite, e copra solo 1.000 metri di dislivello, ma saranno veramente e autenticamente suoi, tutti, nessun metro escluso. Un uomo che con la bicicletta elettrificata riesca a superare 2.000 metri di dislivello non potrà andare a raccontarlo, perché non sarà in grado di distinguere quali metri li ha pedalati lui, faticando, e quali invece li ha percorsi il suo motore elettrico. Al più potrà fornire indicazioni sulla marca e la bontà delle batterie che ha comperato. Il valore della sua esperienza, dal punto di vista umano, è zero. Tanto varrebbe, a questo punto, dotarsi di un puro e semplice ciclomotore elettrico, banale, semplice, ma almeno onesto, pienamente onesto nel dichiarare la sua trazione a motore.

Per un uomo e per una donna è fondamentale non abdicare mai al proprio pieno ed essenziale potere umano fisico, al potere delle proprie gambe, al potere delle proprie braccia, al potere del proprio fiato naturale. E’ questione di consapevolezza piena, è questione di piena accettazione di sé e dei propri limiti fisici naturali.

E’ questione di etica.

P.S. Nella foto una veduta del Lägh da Cavloc, metri 1907. Questa estate padri quarantenni con figli dodicenni tutti a cavallo di mountain bike elettriche. Ma il passo del Maloja, dove transitano gli autopostali che salgono da Chiavenna e consentono il trasporto delle MTB, si trova meno di 150 metri più in basso, raggiungibile a piedi in meno di un’ora per strada forestale e con rampe pavimentate in cemento. Una passeggiata alla portata di un bambino sano.

Ragazza in bicicletta, una sera

 

 

Un tratto di linea ferroviaria dismesso. Una proposta: realizzare una pista ciclabile che riutilizzi il sedime, e unisca due punti di Chirignago in maniera sicura per ciclisti e pedoni. Si tratta di meno di 3 chilometri, dalla località Valsugana fino ad Asseggiano.
Il tratto è quasi rettilineo, salvo piegare leggermente verso Nord, e si snoda lontano dal traffico, dai fumi, dai rumori, in parte in mezzo a campagne con vista aperta, in parte accanto a case e giardini alberati.
Un gruppo di persone attive si impegna, e si raccolgono parecchie centinaia di firme. Si consegnano le firme all’Assessore, presso la sua sede: strette di mano, foto di rito, articoli sui giornali. Anno 2012 (cito a memoria). Ma il sedime è delle “ferrovie”. Si dirà, poca cosa, questione di pratiche burocratiche.
Invece passano gli anni: uno, due, tre… Dopo sei anni, finalmente, fine estate 2018, iniziano i lavori per tagliare i rovi, spianare la massicciata e stendere un sottile strato di un particolare rivestimento poroso. Pochi soldi, in effetti, a confronto dei benefici attesi.
I lavori procedono.
Eppure, qualcosa manca. La via sulla quale affaccia la mia casa, una via laterale, tranquilla e priva di traffico, molto sicura per i ciclisti, unisce esattamente la pista ciclabile in costruzione con il più ampio parco pubblico di Chirignago, e subito dopo con la via principale, e con i vicini poli delle scuole elementari e delle medie. Eppure la recinzione in cemento, realizzata giustamente per separare la via dai binari della linea ferroviaria, rimane al suo posto.
Domanda: qualcuno, in sei anni di progettazione, ha pensato di realizzare un semplice taglio e una piccola rampa per consentire il passaggio e l’accesso alla nuova pista?
Cronometro alla mano, misuro i tempi dalla ultima casa della via al punto corrispondente sulla massicciata della ex linea ferroviaria, a dieci metri in linea d’aria, oltre la recinzione.
Sono otto minuti a piedi per arrivare allo stesso punto, girando in tondo, e passando per centinaia di metri di strada senza marciapiede.
Voglio vederci chiaro. Computer, sito internet del Comune di Venezia, alcune telefonate a vari uffici.
Presto, con molta cortesia, richiama l’ingegnere responsabile del progetto, che già avevo avuto modo di conoscere. Fissiamo un incontro a distanza di pochi giorni. Nel suo ufficio – 6 novembre 2018 – ho modo di visionare con calma il progetto della pista in costruzione: l’accesso diretto alla via e al parco, in sicurezza, semplicemente non è previsto. Motivi burocratici, dice in sostanza l’ingegnere, impediscono la realizzazione, anche se proverà a sentire un certo ufficio competente. Forse è necessario, ancora una volta, mettersi a raccogliere firme, per ottenere ciò che pare così ben motivato e semplice da realizzare, ora che il cantiere è aperto.
Comincio a parlare della cosa con i vicini, a informare che non è prevista la realizzazione di un passaggio.
Inizi di dicembre, telefono ancora all’ingegnere, il quale conferma che è ancora tutto come prima.
Passano le Feste, inizia il nuovo anno. Tra gennaio e febbraio qualcosa si è mosso negli uffici del Comune: una impresa interviene e taglia la recinzione e il muro di sostegno, aprendo un varco. Iniziano i lavori di costruzione della rampa: cemento grezzo, poi la finitura di superficie, infine, una funzionale ringhiera in acciaio.
In questi giorni, in queste sere d’estate, è bello vedere la gente che accede in sicurezza alla nuova pista, le comari che passeggiano comodamente discorrendo del più e del meno; uomini che corrono avanti con scarpette e calzoncini; nonne e bambini con il casco che spingono sui pattini; coppie di genitori che spingono infanti su carrozzine; compagnie gioiose di ragazzi e ragazze che pedalano in bicicletta.